mercoledì 1 maggio 2013

TRANSIZIONI - un contributo critico-lirico di Giovanni Festa (FilmCritica)


Corpi multipli che aderiscono uno sull’altro o ruotano su se stessi come in una danza sufi, dove si perdono le coordinate e l’alternanza del respiro assume un’altra cadenza. Sovraimpressioni tenui  come l’ala arabescata di una farfalla su un deposito alluvionale. Corpi che si separano o che affiorano da un luogo impossibile (un mare uterino, una grata oltretombale, le pieghe di un abito screziato). Figure - grisaille, fantasmi che prendono corpo (o vengono “trattenuti” dalla retina) giusto un attimo prima di scomparire.
La fotografia (arte che più di tutte blocca e arresta il movimento, costringe il suo inquieto manifestarsi alla reificazione e allo stato isolato, lo blocca in un istante preciso del suo prodursi), riesce a mettere a fuoco situazioni di paradossali di questo tipo a patto di una scommessa e di una prova: fare del movimento un evento. E’ questo quello che la fotografia di Salvatore Insana si incarica forse di operare (come si fa sulla carne viva di un corpo).
In fotografie di questo tipo non si tratta di rappresentare figure impegnate in un’azione (per quanto patetica o complessa) ma di cogliere (come si fa con un fiore) degli eventi di realtà. Singole istantanee di un movimento perpetuo di mutazione e metamorfosi; istanti fuggevoli e delicati, che abitano in uno spazio paradossale, inquieto, che barcolla sempre vicino alla nascita, ai primordi, al mondo prima del mondo. E quando la fotografia si incarica di incorporare questo spazio, di farlo “salire a bordo” lo fa a costo di una perdita e di un sacrificio. Ma il sacrificio è sempre il preludio di una nascita seconda: al corpo smembrato segue quello redento e trasfigurato.
Le fotografie in mostra riproducono spesso uno spazio liminare. Uno spazio interamente vergine ma non desolato, un qualche tipo di membrana elastica che però basta un soffio a scomporre nel pulviscolo infinito e accidentale dei suoi elementi: qualcosa di astratto, che sta tra l’azzurro del mare e l’azzurro del cielo ma anche fra i corpi e la loro aderenza, o nell’impossibile campo e controcampo di chi guarda un volto desiderato che si ritrae. Ma per accostarsi a questo spazio occorre compiere un paradossale moto a luogo: “bisogna uscire dalla vita per entrare nella realtà”.
La realtà non può essere semplicemente “rappresentata”. Ogni rappresentazione implica sempre un qualche tipo di tradimento o connotazione che la sposta verso un altro livello, la traspone. La realtà si dà a noi in modo istantaneo per piccole sensazioni e per trasalimenti o incanti del cuore. Va quindi presentata, come fa la Veronica quando mostra (così delicatamente, stringendo il velo fra le dita sottili) il Panno su cui è impressa la traccia del Volto. Alla rappresentazione si sostituisce il movimento paradossale di un’ostensione.
Nello stesso tempo la realtà va ri-montata, va operato su di essa il lavorio complesso della composizione conflittuale di momenti eterogenei (immagine sopra un’altra, vista attraverso l’altra).
Eccole le fotografie di S.I: non “arrestano”, “bloccano” ma mostrano (in una sorta di palpito ondeggiante: della muleta, dell’abito della ninfa, del corpo che danza) questi momenti, privilegiati e complessi, che vengono incontro al soggetto come un onda, una carezza o una confessione.

Giovanni Festa