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prefazione a ESTERNO, GIORNO, di Francesco Scirè e Il 7 Marco Settembre, Edilet, 2011

ESTERNO, GIORNO


In principio ci furono gli avvistamenti di Francesco Scirè, bagliori rari nel percorso d'un viandante con macchina fotografica; poi l'istante di scatto e la loro titolazione a offrire una prima via impressionistica, didascalica, un abbozzo di significanza. Venne a quel punto Marco Settembre a confrontarsi e scontrarsi con essi, ri-flettere e ri-flettersi intorno. È dopo tutto questo moltiplicarsi di piani, rimbalzi e stratificazioni linguistiche, che si situa il mio intervento di presentazione, un intervento a freddo di re-visione e pre-fazione su quel è già in intervento a posteriori. Una breve indagine su chi ha già indagato, prima con lo sguardo e poi con la scrittura.

Esterno, giorno è un titolo dall'evidente risonanza cinematografica, implica un appostarsi programmatico e al contempo assai vago, un punto di riferimento che ingloba deriva urbana, svagata flanerie e attenta visionaria indagine dell'esistente. Si tratta di una proposta che tuttavia che ha più a che fare con l'essere “in corso d'opera”, un piano di lavorazione per una ri-presa, una ri-lettura del mondo a partire da occhi sensibili all'accidente, al fortuito, all'effimero e fulmineo presentarsi d'istanti di realtà/verità. <>, colti da chi è capace di osservare l'inosservato, inquadrarlo, ricomporlo.

Negli scatti di Francesco Sciré è la realtà (o il suo precipitato) che sembra mettersi in posa  - senza posa - da sola, in scena per eccezionale ordinarietà, nell'embricarsi sensuale d'organico e inorganico (Nude design), tra interventi del caso o della mano umana, in un sistema di oggetti e anime ricondotto a geometrica e fascinosa regolarità compositiva.

Conta forse il suo essere ingegnere oltre che fotografo: scatti d'apparente fredda precisione, calibrazioni balistiche in cui la ri-destinazione dei corpi e degli oggetti si situa in un sistema che pare tuttavia altamente armonico, in un equilibrio di toni e contrasti cromatici contraddistinti dal predominio di quel marmo bianco che è simbolo pervasivo della monumentalità romana.

L'attitudine di Scirè è quella di chi attraversa la vita per ininterrotte e centrifughe tappe, lasciando e fissando tracce dei passi (in)compiuti, contattando l'altro solo per mezzo degli occhi, con attenzione ai casi marginali (Stanco del mondo, Nessuna identità), quelle presenze di emblematico valore sopravviventi nei gorghi della città; e poi all'ambiguo ready-made (A strange day), e ancora alla metafisica degli spazi vuoti/pieni (Ombre in movimento), fino alla riconquista della figura umana (Street streching, Make up).

Intervenendo nei punti morti, prima che l'azione si compia o dopo <>, dopo che il fatto (non) è accaduto (Puzzle, Senz'anima, L'abbandono), affascinato dalle forme e dalle linee, dai corpi nello spazio – punti di intersezione d'architravi strutturali, forma tra le forme dialogante con un immaginario spazio off - un aldilà della scena tagliato letteralmente fuori -  ai margini del segmento di vita scelto al momento dello scatto (Solo, Distanze (in)finite), Scirè coglie una tensione sintetica e contratta, un'esistenza in stato di quiete, senz'azione, in sosta o a riposo, concentrandosi su corpi integrati-disintegrati con il contesto architettonico (L'attesa, comode letture, nessuna identità), parzialmente celati, nascosti alla vista, colti nel non fare, nell'intervallo, nell'attimo di respiro.

Fino a Lo Sbadiglio, grottesca eclatante summa della sua ricerca, lì dove la geometria si mescola e si abbina alle maschere-persone, all'ironia, al gusto per il momento esatto, all'empatia emotiva.

Quello del 7 è un insensato e gravido sguardo analitico, dissennato disperato tentativo di circondare, circuire l'immagine cortocircuitando intorno all'asse fragile dell'elucubrazione mentale, un mental training per speculatori di pensiero.
Precipitano tra le righe i lemmi in forma carica di orpelli e di rimandi, trovando il loro mancato ruolo nel farsi assegnazioni mai definitive ma sempre transitorie, cangianti, in torsione su sé stesse e in tuffo verso quel che passa a fianco del senso.

Mira Il 7 ad intercettare il segno e quel che dietro di esso cova. Una semiotica ebbra, rigogliosa e che non trova pace nella semplicità, ma naviga piuttosto nel mare magnum d'un immaginario eccentrico. Facendo del divagare la sua arma micidiale di straniamento e fuga dalla pagina in cui ci sia trova al momento della lettura, e mandando in ferie a tempo indeterminato la necessità di comunicare una via univoca di interpretazione e di significato, Marco Settembre lascia intender nel suo sproloquiare ironico che in fondo e inevitabilmente parla sempre di sé, servendosi di volta in volta d'un differente punto d'appoggio attraverso il quale esibirsi umilmente in voli acrobatici.

Aggirando le forche caudine della sintassi, il suo è un pensiero che sosta intorno ad un oggetto d'indagine, convogliando per accostamenti di imprevedibile connessione quell'enciclopedia personale di cui si nutre, da A Clockwork Orange a Pierre Restany, da Joseph Kosuth a John Cage, perso nel suo linguistico vagare, un incedere barocco ricco della fioritura fluida di lemmi che nascono per gemmazione, tra <>. Capace di accostare senza remore e timori Deleuze e la sprovveduta saggezza popolare romanesca, una trovata che sposta il teorizzare verso passeggiate mentali segnate dall'umore del momento, colte in ironica parodia del criticar oggettivo, nell'accumulo di scatole che non sempre fanno da contenitore una dell'altra.

Il 7 declina l'attitudine a imperversare con il pensiero, una volta appostatisi a osservare, per vie diverse e traverse, cogliendo i segni che possano ricondurlo, in fondo, a quello a cui più sembra tenere, l'incompiuto compimento del nostro percorso su questa terra, in un ondeggiare tra studium e punctum che, sempre sull'orlo del paradosso, sembra privilegiare uno scrutare razionale di quel che la foto contiene.

Ogni istantanea è un'occasione per propiziare un excursus ad libitum, in un sommo sberleffo del più serioso teorizzare. Un delirio interpretativo che a volte finisce per eccedere-evadere (e non lo considero un demerito) nell'indagine socio-storiografica (Musica Urbana) o nel racconto (Comode letture), in una forma dialogica che ammicca alla drammaturgia dell'immagine più che alla sua qualità estetica.

Il 7 procura delle storie a chi forse non ne ha (Stanco del mondo, Lo sbadiglio), sceneggia un instante prolungandolo temporalmente, quasi con capacità d'immedesimazione nell'altro. Parte da un segno-punto e poi deraglia in una decrittazione a tratti surreali a tratti d'una lucidità mai compromessa con l'ovvio proceder didascalico di chi indaga visivamente, esplorando l'istantanea palmo a palmo in una vertigine intellettuale che va a pescare nel bacino rock (Pink Floyd, King Crimson) e poi si contamina con il peregrinare quotidiano del cittadino romano, un suo doppio interiore che ristabilisce una certa pace con il  gusto capitale per la battuta arguta e risolutrice, finale.

Esterno, giorno è la testimonianza e il resoconto di molteplici incontri. Quello dell'occhio del fotografo con la fantasmagoria del reale, quello d'uno scrittore con una nuova realtà significante, la stessa riproduzione fotografica. Quello di entrambi con Roma, base e fonte inestinguibile di ispirazione, serbatoio di storie, di volti, di casualità, di suggestioni. E quello promesso e sperato, con il lettore-visitatore di questo volume. Se mi è riuscito di coglierne lo spirito, è a mio avviso un'avventura nel linguaggio, un'indagine estetica e sociologica della metropoli romana, effettuata con gli strumenti dell'arte, e in cui ogni frammento diventa un saggio sull'osservare, un documento che testimonia il percorso tracciato in soggettiva da un binomio d'osservatori particolari, un piano di lavorazione per esploratori urbani per i quali il comportamento del sole conta quanto quello della gente.


post-fazione a LE ORE DELLA SERA CHE SEGUONO ALLA CENA di Simona Novacco, Youcanprint ed., 2013




UN DOPO CHE PRESTO NON RICONOSCERAI PIÚ


Le ore della sera che seguono alla cena sono quelle che ci consentono l'accesso al viaggio in un mondo altro, diviso, dove accadono eventi le cui fattezze risentono sempre di un tendenziale squilibrio tra concretezza e fantasia. Installandosi in una cerimoniosità di gesti e topos dilatata e rivisitata, ritualità della preghiera quasi sotto coperta, a ritroso, scavando nella memoria di Dio, Simona Novacco ci ricorda come le parole arrivino sempre troppo tardi o troppo presto all'appuntamento con il compimento dei desideri, delle visioni, delle intenzioni (DiUnColpoDiTosse).

In una dialogica fittizia che tanto avvicina al procedere mentale dello schizofrenico, ogni parola rimanda altrove, come suono prima che come senso o significato. Tra allitterazioni, vertigini della lista, iterazioni narrative in un'interrogazione costante del proprio (saper) guardare e sentire (Sulla stessa terra; Come nella pancia del geco, In nomine Dei ….), ci si immerge in un ripetuto tornare sui propri passi, a metà tra l'immersione in un universo da favola infantile e la tentata condivisione d'un altrimenti cieco flusso interiore. Essere molteplici, in un confutarsi che è insieme un accettarsi e un contraddirsi, attori di una vita che è tastiera disarmonica (Cari miei), interpreti di un discorso interrotto, dalla sintassi sospesa, in un'ipotassi sabotata e lasciata a metà (Come il passo di un orco). E non sapere come, a furia di generar pensiero, si possa “essere arrivati fino a lì”.

Non sogno ma sonnambulismo che fa apologia dell'età dell'oro, quella in cui <>), quella che ora se n'è andata sotto i colpi della maturità, e della quale non ne rimane che un agrodolce trauma.

Stando sottosopra, in uno stato sospeso, indifferente o dimentico della presunta contemporaneità, se è il caso “in anticipo sul nostro ritardo”, quindi troppo presenti per versificare le nostre azioni, nell'intimità d'un soggetto colto sempre sull'orlo del disperare, in lotta contro il becero Kronos e nel rispetto verso tutto quel che uomo non è, installandosi nella vita d'altri, in una ricognizione discorsiva degli spazi domestici (Calligrafie), animando pietre e numeri, oggetti e soprattutto luoghi (Sottosopra): “nomi continuate a chiamarvi/ oggetti riprendete a girare/ cose che non si vedono restate qui”. È il Tempo (con i suoi strumenti di misurazione, con la sua scansione della giornata) l'ossessione, il padrone, la vittima (Blues # FF0000): e forse congiungere parole è in qualche modo un fronteggiarne l'onda d'urto, a sua volta un temporeggiare in attesa di armi migliori?

E ancora, icasticamente e in fine, nel constatare d'aver afferrato un passaggio irreversibile, al di là del ritorno del passato sui propri passi, oltre il suo rigurgito sul presente, eccola la “trappola brevettata”: “Esiste un tempo per ogni cosa. / Trascorso quel tempo/ ogni cosa poi va via”.